Il Mio libro, Capitolo I

Salve a tutti amici, ditemi se vi piace il primo capitolo del libro che vorrei scrivere.

I vangeli segreti



In quell’angolo remoto dell’Africa il noto storico e archeologo americano Blake Connor, non poteva credere ai suoi occhi quando vide ciò che aveva scoperto. Si era recato nel continente africano due mesi prima, per dirigere degli scavi archeologici, con il suo staff di cinque persone composto da: Mark O’Neal e Marcus Hudson, due giovani archeologi che il capo spedizione aveva voluto nel suo team poiché si erano distinti sia per la professionalità sia per l’interesse dimostrato verso le precedenti spedizioni del dottor Connor nel continente africano; altri tre membri dello staff erano Cotton Douglas, Aaron Sheridan ed Elisabeth Ashe, tutti e tre esperti geologi, molto utili al dottor Connor per datare gli strati di roccia nei quali erano eseguiti gli scavi. I due uomini, Douglas e Sheridan erano notevolmente più anziani, entrambi sui settant’anni, e con più esperienza rispetto alla dottoressa Ashe, una giovane donna, di appena trentacinque anni, aspetto mediterraneo, grandi occhi verdi, lunghi capelli neri che ondeggiavano lambendo le spalle e una carnagione scura che uniti ai tratti del viso aggraziati facevano di lei una donna molto attraente, che sembrava alquanto fuori posto in quel luogo ostile della Terra.
Il dottor Connor aveva convinto la dottoressa Ashe a far parte della sua spedizione perché la considerava una donna molto brillante e preparata. Si era laureata otto anni prima, con il massimo dei voti, alla Michigan Tech University, una delle facoltà di geologia più illustri degli Stati Uniti. Successivamente partecipò a un importante master, svolto in collaborazione con L’Università degli studi di Padova, dove era risultata la prima del suo corso, quindi per il dottor Connor identificava la persona giusta da affiancare a due esperti ma “vecchi” geologi poco inclini alle nuove teorie scientifiche come Douglas e Sheridan.
Connor si trovava lì per dirigere degli scavi archeologici nella zona circostante la valle del Nilo, in territorio egiziano. La missione consisteva nel provare l’esistenza di una popolazione ancora sconosciuta vissuta in quel territorio circa cinquemila anni fa.
Le cose erano cambiate rapidamente, troppo. Sulla sua fronte le gocce di
sudore scivolavano velocemente quando si rese conto che ciò che aveva tra le mani, avrebbe con ogni probabilità cambiato la storia delle cose per come il mondo intero la percepiva. Era pienamente consapevole che al mondo esistevano persone che erano pronte a uccidere per far si che il suo ritrovamento non fosse mai stato reso pubblico. Una scoperta del tutto inaspettata che avrebbe potuto fare di lui l’uomo più popolare del pianeta o un uomo morto.
I membri dello staff avevano notato che Connor era molto strano, i suoi occhi blu non sembravano più brillanti come nei giorni precedenti, accesi dall’eccitazione per l’ottimo lavoro svolto fino a quel momento, adesso invece apparivano stanchi e offuscati, una profonda preoccupazione si celava nello sguardo di quell’arzillo settantenne che invece di stare tranquillo a casa propria seduto su una poltrona con un bicchiere di buon bourbon in mano si trovava in uno dei posti meno ospitali del pianeta a vivere in una tenda da campo. I suoi occhi erano segnati da profonde occhiaie, causate da molte notti insonni, da quando, uno dei due giovani archeologici, Marcus Hudson, andò nella sua tenda per comunicargli qualcosa di molto importante , subito dopo i due uomini si erano precipitati fuori dalla tenda molto velocemente e con un’espressione stralunata in viso. Quando tornarono, quaranta minuti dopo, il volto del dottor Connor era sconvolto, come quello del giovane archeologo, che entrando nella tenda si rivolse a Lui. <<Che cosa facciamo adesso? Chiamo il resto dello staff? >>Il professor Connor gli lanciò un'occhiata che lo fulminò.
<<Questa scoperta deve rimanere segreta, almeno per il momento, ne va della nostra sicurezza, siamo già in troppi a saperla!>> Hudson guardò il dottor Connor con fare stupefatto, ma poi si rese conto che non era opportuno continuare quella discussione e che sarebbe stato meglio lasciarlo solo, in modo da riflettere su come gestire quella situazione molto delicata.
Quando tornò nella sua tenda, Hudson trovò tutti i suoi colleghi ad aspettarlo incuriositi, ovviamente erano ansiosi di sapere tutto riguardante la discussione che il loro compagno d’avventura aveva avuto con il capo spedizione, ma stranamente il sociale e solare archeologo quella sera si mostrò molto scontroso e invitò bruscamente i suoi compagni a uscire dalla sua tenda. 
Elisabeth Ashe capì subito che qualcosa non andava, conosceva bene Marcus e non lo aveva mai visto comportarsi in modo così freddo con gli altri membri dello staff, né tanto meno con lei. Tutti quanti andarono nelle loro tende, la giornata era stata molto pesante e tutti erano molto stanchi. Ben presto si udì un profondo silenzio, tutti dormivano, tranne Connor e Hudson assorti nei loro pensieri.
Il mattino seguente, all’alba il dottor Connor svegliò tutti per informali di voler fare una riunione per una comunicazione molto importante da fare a tutto lo staff. Trenta minuti dopo si trovarono nella tenda del capo spedizione, a semicerchio di fronte all’anziano uomo che non perse tempo per comunicare ciò che aveva da dire.
<<Comunico a tutti che con effetto immediato la spedizione è sospesa, mi dispiace per voi che credete in questo progetto, ma gli ordini sono arrivati dall’alto e non posso contestarli>>. Quelle parole riecheggiarono all’interno della piccola tenda, come se le sei persone si trovassero in un profondo canyon e non in appena quattro metri quadrati. Tutti rimasero sconvolti, e Hudson più di tutti, si voltò di scatto e abbandonò la tenda. Connor stava andandogli dietro, come per cercare di rincuorarlo, quando fu bloccato dalla dottoressa Ashe. <<Ma signore come mai la spedizione è stata sospesa, abbiamo fatto un buon lavoro, non abbiamo sforato il budget e siamo in anticipo rispetto alla tabella di marcia, io....>> non ebbe il tempo di finire, interrotta da Connor che fissandola negli occhi le disse:<< Elisabeth credimi, non dipende da me, questa spedizione è il mio sogno, mi hanno dato la possibilità di realizzare solo ora che ho settanta anni, e dopo gli ultimi avvenimenti non potrò mai più esaudire. Desidero continuare questa spedizione più di quanto lo vogliate tutti voi, ma non posso, ho ricevuto l’ordine di interrompere tutto e tornare in patria>>.
La giovane geologa sentì un nodo in gola nel vedere gli occhi lucidi di quell’uomo, ma capì che quello che vide la sera prima, qualunque cosa fosse, era qualcosa che aveva spaventato a fondo un uomo dall’infinita esperienza come il Dr Connor. Finita la breve ma intensa discussione con la dottoressa, l’anziano uomo si precipitò fuori dirigendosi verso la tenda di Hudson. 
Quando entrò all’interno della tenda, notò che il giovane stava facendo le valigie. <<Vedo che hai deciso di partire subito>> gli disse Connor con tono sorpreso ma non troppo. Il giovane lo fissò e lo ignorò voltandosi dall’altro lato per prendere alcuni strumenti su un tavolino. <<Non capisce che quello che sto facendo è solo per garantire la sicurezza sua e di tutto il resto dello staff? Non siamo in grado di poter gestire tutti gli sviluppi negativi o positivi, se ce ne saranno, derivanti dalla nostra scoperta>>. Il giovane archeologo si voltò per guardarlo direttamente negli occhi, con un’espressione quasi schifata.
<<E cosa ha intenzione di fare mi dica dottor Connor, insabbiamo tutto e facciamo finta che non è successo nulla? Continuiamo a vivere nell’ignoranza? Pensavo che lei fosse un uomo dalle larghe vedute e non uno stronzo conservatore come...>> prima che il giovane finisse di parlare, con uno sguardo quasi paterno l’anziano uomo prese la parola. << Figliolo, non ho mai detto che quello che noi, anzi tu, hai scoperto, sarà insabbiato, io voglio quanto te che quello che abbiamo trovato possa essere studiato a fondo per accertarne la veridicità, e che dopo essere sicuri che il tutto sia autentico ne sia informato il mondo intero>>. Udendo quelle parole l’espressione sul viso di Hudson mutò all’improvviso, si rese conto di aver esagerato con le parole, arrossì leggermente rivolgendosi al dottor Connor. << Mi scusi, io pensavo che lei volesse insabbiare tutto per qualche assurdo motivo, non volevo offenderla... >>. Connor gli diede una pacca sulle spalle come per tranquillizzarlo. <<Marcus mi devi promettere che non farai stupidaggini e che non parlerai con nessuno di quello che abbiamo visto, mi metterò in contatto io con te quando sarò sicuro che possiamo agire in assoluta sicurezza, solo allora riformerò un nuovo team e torneremo qui a finire quello che abbiamo iniziato>>. Tra i due vi fu un cenno d’intesa, nessuno dei due sapeva che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbero parlato uno di fronte all’altro.
Un’ora dopo i membri dello staff si trovarono tutti in un ampio spazio poco lontani da quelle che per sei mesi erano state le loro abitazioni, le scomodissime tende da campo. Mark O’Neal era triste per la brusca conclusione della missione, ma in lui c’era la voglia di tornare a casa a riabbracciare la giovane moglie e la piccola figlia, Michelle di soli due anni, non vedeva l’ora di poter passare una notte con loro nello stesso letto, un letto vero e non un sacco a pelo da campeggio, eccitato per l’imminente ritorno a casa scherzava con l’amico Marcus.
<<Ehi Marcus, torniamo a casa eh, adesso che è tutto finito perché non mi dici cosa avete visto tu e il vecchio?>>. Marcus lo guardò con occhi di rimprovero. <<Bada a come parli del dottor Connor, Mark, abbi un po’ di rispetto, e comunque non posso dirti niente, non è per niente finita la missione, dobbiamo solo riorganizzarci meglio e a breve si formerà un altro team che tornerà qui per finire il lavoro iniziato>>. I due furono interrotti dal suono del clacson di un vecchio autobus per il trasporto pubblico, pieno di persone, che li avrebbe portati all’aeroporto del Cairo dove avrebbero trovato un Jet presidenziale che gli avrebbe riportati negli Stati Uniti.
Elisabeth Ashe non capiva come mai il presidente americano Tomas Sexston, l’uomo più potente al mondo, e di conseguenza il più impegnato, si era preoccupato di far trovare allo staff del dottor Connor un jet privato che avrebbe fatto rotta verso l’aeroporto di Washington. Era sicura che questo insolito particolare centrasse con la discussione udita un ora prima dalla tenda di Hudson. Qualsiasi cosa egli avesse scoperto era qualcosa di molto, ma molto importante, tanto da mandare all’aria la loro spedizione. Decise che doveva indagare su quella questione, anche se il cervello le diceva che stava per mettersi in mezzo a grossi guai, non poteva immaginare che il gesto che stava per compiere le avrebbe salvato la vita.
Le cinque persone salirono sul pullman che nel giro di due ore e mezzo li avrebbe condotti all’aeroporto del Cairo. Si voltarono per salutare il dottor Connor che sarebbe partito il giorno dopo, per avere il tempo di sistemare ancora qualche piccolo dettaglio. Il pullman partì con tutti a bordo, prese una strada dissestata e non asfaltata e dopo qualche minuto sparì in una nuvola di polvere.
Elisabeth seduta accanto ad una giovane donna del luogo che la fissava, pensava a cosa stesse facendo in quel momento il dottor Connor, si era affezionata tanto a quell’uomo,molto gentile e protettivo nei suoi confronti, lo vedeva come una figura paterna, figura che non aveva mai avuto. Suo padre, un noto uomo politico americano, si disinteressava quasi completamente della figlia, nemmeno il giorno del suo compleanno si degnava di farle una chiamata, ogni anno riceveva un biglietto di auguri mandato dalla sua segretaria, sempre le solite tre parole. <<Auguri piccola Elisabeth>>. Lei pensava sempre che dopo la morte di sua madre, venuta a mancare quando lei aveva soli dieci anni a causa di una grave malattia, era rimasta sola, era stata cresciuta da diverse donne di servizio e stava mesi senza vedere il padre, pensando che un giorno, crescendo tutto sarebbe cambiato e che avrebbe avuto la forza per avvicinarsi al padre, che era molto impegnato, ma con il tempo capì che l’unico genitore che le restava preferiva stare in compagnia di qualche prostituta invece di passare del tempo con la figlia e quasi si rassegnò a vederlo una o due volte l’anno. Fu in quel momento che decise di dover scendere dal pullman preoccupata dalle parole sulla loro sicurezza pronunciate dal dottor Connor, se erano vere, l’anziano uomo, solo all’accampamento, era in grave pericolo. Si alzò di scatto si diresse verso l’autista e gli fece cenno di fermarsi. Gli altri membri dello staff si alzarono non capendo cosa stesse succedendo ma lei anticipò qualsiasi domanda. <<Tranquilli ho semplicemente dimenticato delle cose nella mia tenda, torno indietro a recuperarle, prenderò l’altro pullman insieme al dottor Connor>>.
La donna scese e si voltò indietro come per calcolare quanta strada la separasse dall’accampamento. Erano trascorsi pochi minuti dalla loro partenza, quindi non doveva essere eccessivamente lontana. Iniziò a camminare in direzione dell’accampamento e dopo soli cinque minuti iniziò a vederlo in lontananza, subito dopo la curvatura dell’angusta strada. Quando arrivò all’accampamento, notò una desolazione agghiacciante, la frenesia dei giorni scorsi era soltanto un ricordo al quale lei pensava con nostalgia. Non c’era nessuno nel raggio di chilometri, quindi si diresse verso la tenda del dottor Connor, ma quando entrò, davanti ai suoi occhi si mostrò una scena terrificante.
L’anziano uomo si trovava sdraiato sul suo letto, rivolto a faccia in giù, in una pozza di sangue. Un brivido di terrore l’attraversò, la schiena della donna s’irrigidì per l’orrore di ciò che aveva davanti agli occhi, non riusciva a capire cosa poteva essere successo. Quando ebbe il coraggio di avvicinarsi al corpo esanime dell’anziano uomo, notò con orrore un foro insanguinato sulla nuca, segno evidente che qualcuno gli aveva sparato. La conferma arrivò quando sforzandosi di resistere al disgusto per ciò che era costretta a vedere, voltò il corpo, e notò che proprio in mezzo alla fronte mostrava un altro foro, con delle bruciature intorno, segno che come pensava qualcuno gli avesse sparato da distanza molto ravvicinata.
In quel momento Elisabeth non sapeva cosa fare, si trovava sola in mezzo al deserto, e non sapeva come chiedere aiuto né tanto meno a chi potesse rivolgersi, ma all’improvviso un terribile dubbio la assalì. L’intero staff si era allontanato dall’accampamento solo da dieci, massimo quindici minuti e all’improvviso capì che non era sola, ma che l’assalitore del dottor Connor non doveva essere lontano, magari era poco distante da lei e la stava osservando. Una sensazione di assoluto terrore s’impadronì di Elisabeth, non sapeva se era meglio allontanarsi di corsa dall’accampamento, oppure rimanere nascosta nella tenda del dottore nella speranza di essere passata inosservata. In quel momento le ultime parole che aveva sentito pronunciare al dottor Connor avevano un senso, parlava di sicurezza per la loro incolumità, e aveva ragione, quello che Hudson aveva scoperto era già costato la vita ad una persona. I suoi pensieri furono interrotti bruscamente da una terribile esplosione che scosse tutto l’ambiente circostante. Sembrava che nel piazzale antistante l’accampamento fosse esploso un potentissimo ordigno. Non curante di cosa potesse trovare fuori uscì, ma l’unica cosa che ottenne fu una sensazione di stupore. Di fronte a lei, a qualche chilometro di distanza, si ergeva una possente colonna di fumo nero e fiamme. Lo staff del dottor Connor aveva perlustrato quella zona e non c’era nulla che potesse giustificare una deflagrazione così violenta, ma all’improvviso comprese che il pullman sul quale viaggiava il resto dello staff diretto all’aeroporto doveva passare proprio da quella parte. Non voleva credere che quell’esplosione avesse coinvolto il pullman sul quale viaggiavano i suoi amici. Si diresse verso la parte posteriore del piazzale, dov’era posteggiata una piccola jeep biposto da esplorazione, salì subito a bordo e si diresse a tutta velocità verso la zona dell’esplosione. 
In lontananza lo spettacolo si mostrava già terribile, si scorgeva la sagoma del pullman, ribaltato sul lato sinistro, mentre il destro quasi non esisteva più, vi erano profonde fenditure nella carrozzeria in fiamme e notò con orrore che molte delle persone che si trovavano sul pullman adesso giacevano senza vita sparse per la strada. C’erano resti umani ovunque, e poche persone accorse da un piccolo villaggio vicino che piangevano disperate. La detonazione doveva essere stata molto più violenta di quanto si potesse immaginare dall’accampamento. Passarono più di 30 minuti prima che una pattuglia della polizia locale arrivasse sul luogo dell’incidente, distante venti chilometri dalla città. 
Quel lasso di tempo fu straziante per Elisabeth, si avvicinò all’autobus in fiamme, cercando di riconoscere qualcuno dei suoi amici, ma non riusciva a vedere altro che corpi mutilati ed inceneriti, irriconoscibili. Vedendo i poliziotti, Elisabeth si diresse verso di loro, era molto scossa e con la voce tremante. <<Scusatemi, sono la dottoressa Elisabeth Ashe, ho qualcosa da dirvi>>. L’agente che era vicino a lei non capiva cosa diceva la giovane e bella donna che aveva davanti, quindi si voltò a guardare il collega che rapidamente si avvicinò.<<Mi scusi signora, sono l’agente Samuel Bedi, il mio collega non parla la sua lingua, dica a me e cercherò di fare il possibile per aiutarla>>. La dottoressa dopo quasi un’ora di panico si sentì improvvisamente al sicuro e riprese la conversazione. <<Come ho detto al suo collega mi chiamo Elisabeth Ashe, sono una geologa, faccio, o per lo meno facevo parte del team del dottor Connor, eravamo qui per degli scavi archeologici, su quel pullman c’erano altri quattro membri dello staff>>. Il poliziotto allora le rivolse una domanda quasi scontata. <<Come mai lei non era su quel pullman dottoressa?>>. La donna pensando che il poliziotto volesse insinuare qualcosa le rispose indispettita. <<Anch’io ero su quel pullman, ma poco prima dell’esplosione ho fatto fermare l’autista e sono scesa, perché avevo dimenticato delle cose all’accampamento, sarei ripartita con il pullman successivo insieme al dottor Connor>> pensò che aveva appena mentito ad un poliziotto, poi riprese <<ma quando sono arrivata all’accampamento ho trovato il dottor Connor morto in una pozza di sangue e credo di sapere il motivo per il quale si è verificata questa serie di terribili omicidi>>. Ovviamente l’agente chiese alla donna di cosa stesse parlando, ma lei rispose che preferiva non dirgli nulla per il momento, anche perché non sapeva esattamente di cosa si trattasse, sarebbero andati insieme a verificare.
I due poliziotti stupiti e scioccati da ciò che avevano davanti, faticavano a credere alle parole che la donna rivolgeva loro,in quel tranquillo villaggio non erano mai successe cose simili, e non erano abituati a fronteggiare situazioni simili. Quando si ripresero dallo shock le dissero di aspettare che arrivassero i rinforzi in modo che loro si potevano allontanare. Quando l’altra automobile arrivò, i due poliziotti fecero cenno alla donna che potevano andare, lei passò avanti con la piccola jeep e loro la seguirono. Arrivati nel piazzale, lasciarono lì le due auto, scesero e si diressero verso la tenda del dottor Connor e appresero che la donna non mentiva, trovarono l’anziano uomo con gli occhi ancora sbarrati in una pozza di sangue. Con uno sguardo molto ”preoccupato” uno dei due poliziotti rivolse qualche domanda alla dottoressa Ashe. <<Signora, deve dirmi esattamente quanto tempo fa ha trovato qui il corpo>>. Lei sobbalzò, era confusa, la sua mente riusciva solamente a pensare che lei era una sopravvissuta, anche lei avrebbe dovuto trovarsi su quell’autobus, e pensava con il cuore pieno di dolore all’amico Mark, e al suo desiderio di riabbracciare la piccola figlia e la moglie, che invece non avrebbe mai rivisto. In quel momento il poliziotto richiamò la sua attenzione. <<Signora, va tutto bene?>> lei si voltò di scatto e fulminandolo con lo sguardo gli rispose. <<Come può chiedere se va tutto bene? Sono appena morte cinque persone con le quali ho trascorso gli ultimi due mesi della mia vita e lei mi chiede se va tutto bene?>> l’uomo arrossì.<<Mi scusi, volevo solo...comunque dicevo, quanto tempo fa ha trovato qui il cadavere?>>. Facendo un rapido calcolo si rese conto che non erano passati più di quaranta o cinquanta minuti da quando era entrata nella tenda trovando il dottore morto. Il poliziotto annotava tutto molto accuratamente su una piccola agenda, poi le rivolse di nuovo la parola. <<Lei mi ha detto di essere a conoscenza del motivo per il quale si è verificata questa serie atroce di delitti, quale sarebbe?>>. La donna si voltò verso gli scavi. <<Seguitemi>>. Mentre si dirigevano verso la scaletta che li avrebbe portati all’interno della zona archeologica, la dottoressa Ashe spiegò ai due poliziotti cosa era accaduto il pomeriggio precedente, quando Hudson era entrato nella tenda del dottor Connor dicendo che aveva scoperto qualcosa di molto importante. Il poliziotto allora gli rivolse un’altra domanda. <<Presumo che lei sappia cosa avesse scoperto il suo collega?>>. La donna lo guardò come dispiaciuta. <<Purtroppo no agente, il dottor Connor non ha voluto darci questa informazione, aveva capito che poteva rivelarsi pericolosa, e che al mondo c’erano persone disposte a uccidere per far si che tale ritrovamento non fosse mai stato reso pubblico, e aveva ragione purtroppo>>.
L’agente non sembrava molto convinto delle parole della donna, ma poi pensò che non avesse motivo per mentire e le rivolse un’altra domanda. <<Adesso dove ci sta portando dottoressa?>>. Lei senza voltarsi gli rispose. <<Andiamo a scoprire insieme cosa ha causato la morte di cinque persone>>. L’agente non rispose, fece solo un cenno d’intesa con il capo.
Arrivati nel punto in cui gli scavi erano stati bruscamente interrotti il pomeriggio precedente, la dottoressa Ashe e i due poliziotti notarono che la recinzione gialla plastificata con la scritta “don’t cross”, era stata strappata e buttata a terra, più avanti la piccola buca all’interno della quale era stato fatto il funesto ritrovamento era vuota. Qualcuno si era introdotto all’interno del sito archeologico e l’aveva rubata, qualsiasi cosa fosse. I due poliziotti si guardarono perplessi. <<Signora qui dentro non c’è nulla>>. La dottoressa si mostrò poco sorpresa, quasi immaginandosi che non avrebbe trovato nulla. Era evidente infatti che, chi si era preoccupato di uccidere il dottor Connor senza lasciare tracce, e di far saltare in aria il pullman con dentro gli altri membri dello staff con una detonazione così potente da non rendere identificabili i corpi, non avrebbe potuto commettere l’errore di lasciare al suo posto quel qualcosa che ha scatenato tutto questo, il perno principale di tutti gli omicidi successi quella mattina. Nel frattempo il poliziotto che fino a quel momento aveva parlato con lei, mandò il suo collega in auto a chiamare rinforzi. La donna intimorita gli chiese cosa stesse succedendo, l’agente si voltò verso di lei con un espressione molto preoccupata.<<Dottoressa, mi sembra evidente che qui c’è qualcosa che non va, io non ho motivo di dubitare delle sue parole, anzi le credo, ho mandato il mio collega a chiamare i rinforzi perché lei è in pericolo, si renderà conto di essere scampata alla morte, ma che rimane comunque un bersaglio di chi ha compiuto quei terribili omicidi>>. La dottoressa Ashe si sentì sprofondare, l’agente aveva ragione, lei era in grave pericolo, ogni minuto in più passato li era
un attentato alla sua sicurezza. Vedendo la dottoressa molto preoccupata l’agente cercò di rassicurarla. <<Non si preoccupi dottoressa Ashe, a breve la porterò in città, dove potrà parlare con il comandante del corpo di polizia il quale deciderà il modo migliore di agire, intanto torniamo nel piazzale>>. La donna lo guardò, e assentì inclinando leggermente la testa in avanti. Ma le terribili sorprese non erano finite.
Arrivati nel piazzale, trovarono l’altro agente disteso a terra, accanto allo sportello del passeggero, in una pozza di sangue e con un grosso coltello da caccia conficcato nella gola, una visione raccapricciante. La dottoressa impallidì e si sentì mancare nel vedere l’uomo disteso a terra ancora tremante, ma per il quale si capiva benissimo che non c’era niente da fare. L’assalitore con precisione chirurgica gli aveva tranciato la carotide, l’uomo era in pratica già morto. L’agente Bedi nel vedere il suo collega in quelle condizioni quasi si paralizzò, ma poi capì che si trovavano in una situazione molto pericolosa, l’assalitore era ancora li, ne era sicuro, uscì la pistola dalla fondina, raccomandò alla dottoressa di non muoversi dalla scaletta e iniziò a camminare in direzione del cadavere, pronto a sparare a qualsiasi cosa si muovesse. La dottoressa Ashe era molto più indietro di lui, rannicchiata con le ginocchia al petto vicino alla scaletta che portava agli scavi, vide l’assassino, ma non ebbe il tempo di avvisare l’agente Bedi.
L’aggressore spuntò da dietro una delle tende dell’accampamento, fu velocissimo come un falco del deserto che ha puntato la sua preda, e pregusta il momento in cui assapora la sua carne. Gli si avvicinò da dietro con il braccio già teso e con in un pugno una grossa pistola nera, di fabbricazione italiana, una Berretta 92 FS calibro 7,65 Parabellum con silenziatore, la portò all’altezza della testa di Samuel Bedi e senza la minima esitazione esplose un colpo. L’agente cadde a terra già morto, sdraiato su un fianco, l’assassino, completamente vestito di nero e con dei piccoli occhialini che riflettevano i raggi del sole, gli posò un piede sulla spalle e con un calcio lo fece voltare, sbattendo sul terreno sabbioso la sua schiena. Impugnò nuovamente la sua arma  e esplose altri due colpi che penetrarono entrambi la fronte dell’agente.
Elisabeth Ashe era terrorizzata, davanti ai suoi occhi si stava consumando un altro atroce delitto, con la forza della disperazione si alzò in piedi e iniziò a correre dalla parte opposta a quella in cui il povero agente Bedi giaceva a terra senza vita. Sperava che l’assassino, chinatosi verso la vittima per accettarsi che fosse morto, non si fosse accorto della sua presenza, e che la sua fuga passasse inosservata, ma così non fu. L’assassino si voltò di scatto verso Elisabeth, puntando contro di lei la sua pistola, ed esplose due colpi in rapida successione. Elisabeth si abbassò per un riflesso condizionato, continuando a correre, ma una sensazione di dolore lancinante s’impadronì del suo corpo. Il prima colpo esploso dal killer non aveva colpito il bersaglio, ma il secondo si era conficcato sotto la spalla destra della dottoressa facendola precipitare a terra. Il dolore era atroce, sembrava come se una lama incandescente gli fosse penetrata sotto la pelle arrivando fino all’osso. Terrorizzata, si voltò per guardare il suo assalitore, e lo vide mentre compiaciuto della sua mira le si avvicinava a piccoli passi, era a venti metri di distanza da lei, e le andava incontro con la sua arma puntata pronta ad esplodere il colpo di grazia.
In lontananza iniziarono a sentirsi le sirene delle auto della polizia che stavano arrivando, allarmate dalla richiesta di rinforzi del collega dell’agente Bedi. Questo dettaglio sembrò poco gradito al killer, aveva preventivato di essere solo, i suoi piani dovevano essere modificati. Si fermò guardando la dottoressa come per dirle “sei salva, per adesso” si voltò rapidamente e scomparve dietro le tende dell’accampamento. Quando le auto della polizia arrivarono, i poliziotti si trovarono davanti una scena agghiacciante: due colleghi a terra barbaramente uccisi, e poco più distante una donna ferita che chiedeva disperatamente aiuto. Subito un agente si diresse verso la donna ferita, gli diede una mano ad alzarsi e a camminare verso la macchina, in modo da portarla più velocemente possibile all’ospedale in città. Dopo aver estratto il proiettile e medicato la ferita, profonda ma non molto grave l’infermiera fece accomodare la dottoressa Ashe in una piccola stanza, dove c’erano solo un vecchio letto, un piccolo comodino, e un armadietto. Si sedette sul letto, e la sue mente istantaneamente rielaborò tutte le immagini assimilate in quella lunga e interminabile giornata, che l’aveva scossa moltissimo. I suoi pensieri furono bruscamente interrotti da qualcuno che bussava alla porta. <<Chi è?>> chiese con un tono molto spaventato
<<Dottoressa Ashe, sono l’agente speciale James Tounner, mi manda la Casa Bianca>>. La dottoressa rimase sconvolta per qualche secondo, era stranissimo che la Casa Bianca si fosse interessata alle vicende accadute quel giorno tanto da mandare un jet privato e un agente dei servizi segreti. I pensieri della donna furono nuovamente interrotti dall’uomo alla porta. <<Dottoressa Ashe, posso entrare?>>. La donna preoccupata che potesse essere l’assassino tornato per finire il lavoro iniziato poche ore prima, non sapeva cosa rispondere, poi pensò che per come aveva visto agire quello spietato individuo, dubitava fortemente che si sarebbe preoccupato di bussare alla sua porta, sarebbe entrato e le avrebbe puntato in testa la sua pistola per esplodere qualche colpo e finire il lavoro, si voltò e con un filo di voce rispose. <<Prego entri pure>>. Quando l’agente entrò la donna vide con piacevole stupore che l’uomo non somigliava per niente alla sagoma dell’assassino che aveva visto in precedenza. Era molto giovane, più alto, e con una corporatura piuttosto possente, una carnagione chiara, capelli biodi molto corti e ordinati e lineamenti marcati. L’uomo vide che la donna lo fissava e arrossì, imbarazzato riprese subito la parola. <<Signora sono stato mandato qui direttamente dal Presidente, dopo essere venuto a conoscenza della scoperta fatta dal dottor Connor, abbiamo immediatamente temuto per la vostra incolumità, e avevamo ragione. Ho appreso con tristezza che gli altri membri dello staff e lo stesso dottor Connor sono morti in seguito a dei vili attentati. Il mio compito adesso è quella di scortarla da qui all’aeroporto, ci sposteremo su una jeep blindata, alla velocità di sicurezza per operazioni militari di centoventi chilometri orari, così ci accorgeremo se siamo seguiti, l’aspetto all’ingresso posteriore della struttura tra dieci minuti>>. La donna rimase stupita dalle parole del giovane agente Tounner, non poteva credere che quella scoperta fatta il giorno prima da Marcus Hudson era così importante da richiedere addirittura l’attenzione del Presidente e dei servizi segreti, ma purtroppo era così. La giornata non era ancora finita, prese le sue cose, e lentamente andò verso il corridoio, per dirigersi verso l’ingresso posteriore dell’ospedale, dove l’attendeva una grande jeep blindata nera.
In una piccola e squallida stanza di un albergo alla periferia del Cairo, l’assassino era sdraiato sul letto, consapevole di aver fallito la missione che il suo capo gli aveva affidato. Era in attesta di nuovi ordini, quando un suono elettronico molto familiare si levò dal computer portatile che era accanto a lui sul letto. Aprì un programma di posta elettronica che indicava un messaggio ricevuto da un mittente anonimo, poche righe, ma chiarissime. <<Hai fallito, mi hai deluso, vedi di rimediare. La dottoressa sarà trasferita dall’ospedale all’aeroporto su una jeep nera, durante il tragitto fai la tua mossa>>.L’uomo chiuse il monitor del portatile ed uscì di corsa dalla stanza.
Quando la dottoressa arrivò all’ingresso secondario dell’ospedale vide l’agente Tounner che l’aspettava impaziente davanti alla jeep, <<passeremo sicuramente inosservati, qui tutti camminano con auto da centomila dollari>>. Quando la vide l’agente Tounner aprì lo sportello posteriore e la invitò ad accomodarsi in macchina. Senza perdere tempo girò dall’altro lato e si accomodò al suo fianco. Appena chiuso lo sportello l’autista mise in moto e partirono alla volta dell’aeroporto. Il viaggio procedeva tranquillo, la jeep sfrecciava velocemente in mezzo alle macchine, non accennando minimamente a diminuire la velocità. La dottoressa Ashe sentiva crescere un senso di nausea a causa di quella guida da corsa automobilistica, ma si rese conto che era necessaria per essere sicuri che nessuno li stesse seguendo.
Erano quasi arrivati, la sagoma del maestoso Aeroporto Internazionale del Cairo era proprio davanti ai loro occhi, ma all’improvviso un impatto terrificante fece sobbalzare la pesante automobile. Qualcuno li aveva tamponati ad un velocità molto elevata, l’agente Tounner immaginò subito di chi potesse trattarsi, mise immediatamente la mano dentro la giacca per prendere la pistola,una Glock 17, di quelle in dotazione alle forze speciali. In strada il traffico era paralizzato, ma sebbene dall’interno della jeep non si sentisse quasi niente, all’improvviso dei colpi di pistola diretti al para brezza dell’auto ruppero il silenzio. I proiettili riuscirono a perforare il vetro dell’auto e colpirono a morte l’autista. L’agente Tounner rispose al fuoco, nella direzione in cui aveva visto i bagliori dei precedenti spari. Quando l’otturatore della Glock 18 dell’agente iniziò a scattare a vuoto, si resero conto che dall’esterno dell’auto non arrivano più spari. 
Ancora scosso dal forte impatto, e dalla raffica di proiettili che aveva colpito la jeep, l’agente Tounner capì che era meglio scendere dall’auto, erano un bersaglio troppo facile chiusi li dentro. Ricaricò velocemente la sua arma, afferrò per la mano la dottoressa Ashe, tremante come una foglia, e aprendo lo sportello scese dall’auto. Si guardò intorno, ma non vide nessuno nelle immediate vicinanze. La dottoressa lo seguì e si ripararono dietro ad un muro in modo da avere una visuale migliore della strada che li avrebbe condotto all’aeroporto. Si rese conto che in qualsiasi modo dovevano riuscire a raggiungere l’hangar dove li aspettava con i motori già accesi il jet presidenziale. Afferrò con più forza il braccio di Elisabeth Ashe e iniziarono a correre in direzione dall’aeroporto. In quel preciso momento, dai rottami dietro l’auto, uscì una sagoma nera, faticava a stare in piedi, l’assassino ferito alla gamba e insanguinato, puntò la sua arma in direzione della donna e dell’agente ed esplose tutti i colpi che gli rimanevano. La sua mira in quelle condizioni e a causa della distanza non fu delle migliori, su cinque colpi sparati solo due raggiunsero il bersaglio. Il primo colpo ferì di striscio il braccio dell’agente Tounner, mentre il secondo lo colpì al quadricipite femorale facendogli perdere l’equilibrio. Il giovane uomo, abituato a situazioni estreme, riuscì e rimanere in piedi, e anziché scappare, si voltò verso l’assassino impugnando la su Glock. Nei suoi occhi vi era una luce particolare, lottava per la sua vita, e per quella della dottoressa Ashe, aveva una missione, riportare la donna viva negli Stati Uniti e non aveva nessuna intenzione di fallire. Piantò bene per terra i piedi, prese velocemente la mira, e mise in pratica tutto ciò che aveva imparato nei SEAL, corpi speciali d’assalto americani, sparò una rapida successione di tre colpi, due penetrarono nel petto dell’assalitore, ed il terzo proprio in mezzo agli occhi. Il killer che si trovava in piedi davanti i rottami dell’auto, dopo quella letale serie di colpi, stramazzò al suolo privo di vita, per il momento l’incubo era finito. I due sopravvissuti ripresero la loro corsa verso l’ingresso principale dell’aeroporto.

Una volta arrivati nel piazzale dell’aeroporto si diressero velocemente all’hangar dove li aspettava il jet presidenziale che stava già iniziando le manovre di rullaggio. Saltarono velocemente a bordo, il pilota portò al massimo il regime dei motori, e non appena la torre di controllo li autorizzò al decollo, l’aereo scattò dalla sua posizione, il rumore dei motori era assordante e la velocità schiacciò i passeggeri sui sedili. Nemmeno il tempo di rendersene conto ed erano già in volo, diretti verso Washington, dove sarebbero arrivati diciotto ore dopo. Finalmente Elisabeth Ashe, mentre guardava con gratitudine l’agente Tounner che veniva medicato, si rese conto che per la prima volta in quella giornata era al sicuro, e poteva finalmente riposare. La sua mente elaborava ancora pensieri su cosa avessero scoperto di così importante da causare tutte quelle morti, ma il suo corpo non l’assecondava, era esausta e si addormentò, il viaggio era lungo, chiuse gli occhi e si addormentò.

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